May you live in interesting times. È questo il titolo scelto per la 58esima edizione della Biennale Arte di Venezia. Possa tu vivere in tempi interessanti. Apparentemente suonerebbe come una benedizione, un augurio benevolo a vivere in tempi interessanti e vivaci. Tuttavia, se scaviamo a fondo nella retorica del linguaggio, scopriamo che si tratta invece di una maledizione di antiche origini cinesi che evoca contro chi la si invoca tempi di disordine e conflitti, ritenuti appunto “interesting”, e dunque in contrapposizione con gli “uninteresting” periodi di pace e tranquillità. E se scaviamo ancora più a fondo nella storia scopriamo che non esiste alcuna maledizione cinese e che attorno al detto “May you live in interesting times” si è sviluppata una delle più grosse fake news dei tempi moderni. Sì, perché questa dichiarazione non è né cinese né antica, ma solo un motto molto in voga tra i politici del XX secolo al quale, per qualche strano motivo, vennero attribuite cupe origini orientali. Fatto sta che divenne una citazione molto frequente tra i diplomatici al punto che lo stesso Robert Kennedy la utilizzò in un discorso del 1966 sottolineando come i tempi “interessanti” di incertezza ed instabilità dell’epoca fossero anche quelli che offrivano maggiore creatività ed energia.  Il collegamento con la Biennale Arte 2019 ci sembra ora un po’ meno traviante. Come ha sottolineato il curatore dell’esibizione Ralph Rugoff, non ci sarà alcun tema principale poiché la Biennale 2019 “metterà in evidenza un approccio generale al fare arte e una visione della funzione sociale dell’arte che includa sia il piacere che il pensiero critico”.

Dopo questa breve introduzione, necessaria per chiarire la fondamentale, e anche fuorviante, questione del titolo, e per illustrare la chiave di lettura dell’intera esibizione, vi presentiamo ora, senza seguire alcun ordine di importanza, quelli che, secondo noi, sono i “must see” della Biennale Arte 2019.

1. Padiglione della Lituania “Sun&Sea (marina)”

Curata da Lucia Petroiusti e realizzata dalle tre artiste Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė, l’istallazione lituana, con il suo nome, richiama uno scenario estivo, vacanziero e rilassato. Le aspettative del pubblico non vengono d’altronde deluse poiché l’opera lituana riproduce effettivamente una spiaggia popolata da bagnanti intenti a prendere il sole, a rilassarsi leggendo un libro, ascoltando musica e chiacchierando animatamente. Ciò che però curiosamente manca sono proprio il sole e il mare. Ma questo passa in secondo piano agli occhi degli spettatori che vengono accolti da un’opera che è più di una semplice installazione. È una vera e propria performance viva e in continuo movimento dove i bagnanti si intrattengono in conversazioni che vanno dalle più futili, come su quale crema solare utilizzare, alle più insidiose, come il cambiamento globale. I bagnanti-performer inoltre non sono attori ma gente comune che per tre ore si rende disponibile a “bighellonare” su una spiaggia artificiale allestita in uno degli spazi interni della Marina Militare, vicino all’Arsenale, per la prima volta aperta al pubblico. Ed è anche questo aperto coinvolgimento dei veneziani e di chiunque passi in città che ha fatto sì che Sun&Sea (Marina) vincesse il premio Leone d’oro come migliore partecipazione nazionale. Oltre all’originale modalità di interazione con la città, l’opera performance è stata apprezzata dal pubblico e dalla giuria per il fatto di riuscire, con un linguaggio semplice, immediato ed informale, a fare riflettere su tematiche profonde come il global warming, l’individualismo e la superficialità umana. Il tutto giunge agli occhi curiosi e attenti degli spettatori al primo piano che di quest’opera sono il sole. 

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@ Andrej Vasilenko 

 

2. Padiglione del Belgio “Mondo cane”

Realizzata dagli artisti Jos de Gruyter e Harald Thys, e curata da Anne-Claire Schmitz, l’istallazione presentata dal Belgio alla Biennale Arte è un’analisi antropologica della società che mette al centro del suo studio la figura umana. A dominare lo spazio del padiglione sono le bambole bianche a grandezza umana, alcune delle quali automatizzate, disposte in modo da creare due ambienti. Al centro vi sono manichini che rappresentano artigiani tradizionali, un pizzaiolo, un pittore, una sarta, che, con movimenti meccanici e davvero poco naturali, praticano in solitaria i loro mestieri. Tutto intorno, nelle stanze limitate da barre che circondano l’area centrale, vi sono altre bambole bianche che vestono però i panni di gente qualificabile come “strana”: pazzi, psicotici, zombie, emarginati. Anch’essi compiono azioni ripetitive, meccaniche ma meno frequenti, che conferiscono loro un aspetto alquanto pittoresco ed inquietante, quasi da film horror. I manichini rappresentano dunque due mondi che vivono lo stesso universo ma separatamente (come testimoniano le sbarre d’acciaio), senza curarsi l’uno dell’altro. Il padiglione del Belgio è un evidente metafora della società contemporanea, chiusa e focalizzata sul tradizionalismo del passato che funge da rifugio contro il futuro e, per alcuni, anche contro la diversità.

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@ ArtsLife

 

3. Padiglione della Bulgaria “How we live”

Allestito a Palazzo Giustinian Lolin, l’istallazione di Rada Boukova e Lazar Lyutakov e curata da Vera Mlechevska intende far riflettere gli spettatori sulla contrapposizione delle tradizioni artigianali secolari e della produzione di oggetti standardizzati che caratterizzano la vita del XXI secolo. Interessante è la scelta dei materiali effettuata dai due artisti. Rada Boukova ha utilizzato per la sua opera moduli fatti di materiali sintetici provenienti dall’edilizia industriale e che potranno poi essere facilmente riutilizzati come elementi decorativi o di costruzione. “Tutto ciò che faccio può essere restituito al ciclo di consumo” afferma l’artista. Lazar Lyutakov ha invece creato un ciclo scultoreo di vetro acrilico. I singoli elementi sembrano prodotti industrializzati e standardizzati. In realtà però sono oggetti della quotidianità che l’artista ha voluto individualizzare.  In quest’opera l’artista combina il vetro acrilico industriale, simbolo della produzione in serie, con il vetro lavorato a mano, simbolo di un processo produttivo completamente diverso.  L’artista afferma: “Il vetro si presenta sotto forma di bicchieri grossolanamente pieni di piccole imperfezioni, che rivelano non solo il lavoro manuale nella produzione degli oggetti ma anche l’uso di vetro riciclato. Il mercato per il quale questi bicchieri sono stati realizzati richiede che siano economicamente accessibili, il che influisce sulla quantità di tempo necessaria per produrli. Questo porta ad un certo livello di casualità e di imperfezione, che per me avvicina i prodotti alle sculture, perché in realtà li rende unici”. Le due opere vogliono dunque portarci alla stessa destinazione: la riflessione sull’unicità artistica che la produzione artigianale e sostenibile conferisce agli oggetti in contrapposizione all’anonimato di un prodotto realizzato rapidamente ed in serie in un’ottica consumistica.

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@ Arte.it

 

4. “Barca nostra” di Cristoph Büchel.

È questo il nome attribuito al relitto della barca affondata il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia sulla quale morirono più di 700 migranti nel tentativo di raggiungere l’Italia. Dopo 3 anni dalla tragedia, il barcone è stato trasportato dal Porto della Marina Militare di Augusta, in Sicilia, fino in laguna. L’artista Christoph Büchel è riuscito a trasformare il simbolo di una così immane tragedia in monumento artistico, controverso certo, e forse anche provocatorio, che ha acceso una forte discussione tra chi vede in essa un’occasione di riflessione ed introspezione, chi si interroga sull’adeguatezza dell’istallazione alla Biennale d’Arte e tra chi invece non si pone il problema condannando la decisione di trasformare in opera artistica qualcosa che testimonia un’azione illegale, che ha portato alla morte di centinaia di presone. Non è nostra intenzione in questa sede offrire un’opinione personale. Ciò che teniamo invece a fare è consigliarne la visita affinché ognuno possa forgiare autonomamente il proprio pensiero circa un argomento tanto delicato.

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@ Culture 

 

5. “Building Bridges” di Lorenzo Quinn

L’11 maggio Venezia, proprio in occasione della 58esima edizione della Biennale Arte, ha accolto una nuova opera dell’artista Lorenzo Quinn, figlio del premio Oscar Anthony Quinn: cinque mani bianche e gigantesche, lunghe 20 metri e alte 15 che si intrecciano a formare una sorta di ponte sull’acqua dell’Arsenale Nord.  Il messaggio è chiaro e semplice: costruire più ponti e meno muri per superare le diversità e differenze in ogni aspetto ed ambito della vita. E quale miglior città per trasmettere un messaggio talmente forte se non Venezia, città dei ponti per eccellenza e bene Patrimonio dell’umanità. Il desiderio è quindi quello di un’umanità perduta che oggi in molte situazioni della vita manca e che dovremmo ritrovare. Le mani infatti simboleggiano, come affermato dallo stesso Quinn, i sei valori dell’umanità: amicizia, saggezza, aiuto, speranza, fede e amore.

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@ Collater.al

 

6. Lo scheletro luminoso di Tavares Strachan (Arsenale)

L’artista delle Bahamas ha realizzato in occasione della Biennale 2019 un’istallazione a dir poco scenografica e ambiziosa: uno scheletro luminoso fluttuante dedicato a Robert Henry Lawrence Jr, il primo astronauta afroamericano che avrebbe dovuto compiere un viaggio nello spazio ma che morì tragicamente durante un training di preparazione. In suo onore nel 2018 venne inviata nello spazio un’urna collegata allo scheletro. Ogni volta che quest’urna, orbitando attorno alla Terra, passa sopra l’Italia, lo scheletro si spegne per qualche minuto per ricordare la morte dell’astronauta. Dovettero passare 11 anni prima che un altro astronauta afroamericano venisse scelto per la missione.

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@ Il Foglio

 

7. Yin Xiuzhen, Trojan (Arsenale)

L’artista cinese Yin Xiuzhen ha realizzato una grande installazione usando i tessuti ricavati da indumenti smessi con i quali ha cercato di ridar vita, in un certo senso, agli individui a cui essi sono appartenuti e ridar loro la voce che si è ormai spenta a causa dell’omogeneizzazione e della globalizzazione dell’epoca in cui viviamo. Con questa gigantesca opera l’artista vuole riportarci anche alle pressanti questioni del mondo contemporaneo, in particolar modo la problematica legata all’inquinamento e alla sovraproduzione, anche di abbigliamento, che finirà un giorno per travolgerci proprio come il mitico cavallo rappresentato fece con la città di Troia.

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@ Biancoscuro

 

8. Shilpa Gupta "For, in your tongue, I cannot fit" (Arsenale)

L’installazione sonora ridà voce a 100 poeti che furono censurati, imprigionati o giustiziati per la loro scrittura o per le loro opinioni politiche. I 100 microfoni pendono sopra 100 punte di metallo sulle quali sono stati infilate delle pagine contenenti fragmenti delle poesie dei poeti rappresentati. Ogni microfono, che in quest’opera funge più da altoparlante che da dispositivo di input, riproduce i versi del componimento sopra il quale pende, accompagnato dall’eco degli altri 99 microfoni. La composizione, che dura oltre un’ora, propone l’ascolto delle poesie oltre che in inglese e spagnolo, anche in arabo, russo, azeri e hindi, dando vita ad una narrazione continua e a tratti inquietante.

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@ Baku magazine

 

9. “Can’t help myself” Sun Yuan & Peng Yu (Arsenale)

Tra le opere più inquietanti di questa Biennale non possiamo non citare il braccio meccanico che tenta di pulire una pozzanghera di sangue. Siamo all’interno del Padiglione centrale ai Giardini, dove le artiste cinesi Sun Yuan e Peng Yu hanno allestito una grande teca di vetro con all’interno macchina circondata da una chiazza di liquido rosso scuro (a rappresentazione del sangue) che si espande in tutte le direzioni. La macchina esegue due pennellate, armoniose ed ipnotiche, per tentare di riportare a sé il sangue, ma poi cambia movimento ed inizia a muoversi in modo violento e forsennato. La macchina sembra quasi un animale da laboratorio, rinchiuso in una gabbia, che tenta di scappare. L’oggetto ci appare dunque per ciò che le artiste volevano che fosse: la cosificazione di un essere vivente ferito che cerca in tutti i modi di arginare la propria ferita, placandone il fuoriuscire del sangue.

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@ Il Post

 

10. Crochet Coral Reef di Christine e Margaret Wertheim (Arsenale)

Si tratta della rappresentazione della barriera corallina cucita all’uncineto (crochet, appunto) dalle artiste gemelle australiane Christine e Margaret Wertheim. Il fatto di aver cucito lentamente ogni punto, ogni nodo e perlina dell’opera evoca il concetto del lungo lasso di tempo necessario alla costituzione di una tale meraviglia naturale. L’opera però non è “immacolata”. Le due artiste infatti hanno pensato di “sporcare” il loro minuzioso lavoro con altri oggetti a rappresentazione della sporcizia rilasciata in acqua dall’uomo. Il loro obiettivo è quindi palese: denunciare, attraverso la loro arte, l’inesorabile scomparsa della barriera corallina che, a causa dell’inquinamento dei mari e dell’innalzamento delle temperature delle acque, sta perdendo il suo colore caratteristico e sta lentamente morendo.

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@ Arte in World

 

 

 

 

 

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