La maschera non era usata solo per puro diletto dai veneziani e la grande diffusione era dovuta a ben diverse ragioni. La possibilità di mantenere chiunque nel più perfetto anonimato per metteva aglio oziosi veneziani, dediti al gioco, di rimanere perfettamente sconosciuti sui tavoli della celebre sala denominata Ridotto. Il vizio del gioco era così profondamente penetrato nel costume che non si riuscì ad estirparlo nemmeno con il decreto del Maggior Consiglio nel 1774 che imponeva la chiusura del Ridotto, infatti i giocatori si riversarono nelle osterie e nelle botteghe da caffè. I veneziani nelle sale da gioco amavano proteggersi dagli sguardi indiscreti dei curiosi, ma anche e soprattutto dagli sguardi dei creditori che non davano loro tregua. Nell’osteria del Salvadego, dove frequenti erano gli incontri dei giocatori, le donne si coprivano il volto con una maschera di velluto nero “la visiera de veludo”. Ma la maschera veniva utilizzata anche per azioni molto più riprovevoli, infatti era spesso indossata da spie, sbirri e sicari.

 

La Bàuta o Bautta è la maschera più semplice e diffusa a Venezia. Mantello nero, maschera e cappello sono gli elementi che la caratterizzano: il mantello nero con l'intento di nascondere gli abiti, il pizzo sotto la base della maschera e il cappello a tricorno per nascondere il volto. La Bàuta tra le diverse maschere permetteva un anonimato completo. Non si poteva identificare chi si celava sotto il mantello, se uomo o donna, povero o ricco signore. Era sinonimo della completa libertà d'espressione, ecco perché quando se ne incontrava una tra le calli, si era soliti porgere un ossequioso inchino di rispetto. Molto discordi risultano le ipotesi etimologiche. Alcuni vorrebbero far derivare il termine dal verbo tedesco behuten che significa: proteggere, preservare, difendere, ... L' Accademia della Crusca ricerca affinità con "bacucco" e "baucco". C'è chi la fa risalire a "bau", "non voce, ma maschera da far paura ai bambini". Altri riportano l'etimologia nell'area veneziana: "forse deriva da bava , come bavaglio" e dello stesso avviso sono altri che citano la vicina voce piemontese "bavèra", maschera del viso. 

La Larva o Volto era una maschera bianca che si accompagnava sempre alla classica bauta. Esisteva pure in versione nera, ma con un uso assai limitato. Il suo nome è facilmente riconducibile ad un etimo latino, infatti con la voce "larva" venivano indicati i fantasmi e le maschere di natura spettrale. Questa maschera era usata indistintamente da uomini e donne e, grazie alla sua forma particolare, era possibile bere, mangiare e respirare agevolmente, serbando l'incognito. 

La Moreta o Moretta, come espresso già nel nome, è la maschera di colore nero usata dalle donne. Molto particolare perché doveva essere sostenuta tenendo in bocca un bottoncino all'altezza delle labbra. Dagli uomini era apprezzata perché dava alla figura femminile quel fascino misterioso dato dal silenzio.

Il mattaccino (o mattacino) è una specie di pagliaccio con abito bianco o multicolore, leggero e corto, con in testa un cappello piumato. I mattaccini a Venezia erano famosi per il lancio di "ovi profumai" (uova profumate) che lanciavano con le frombole. L'usanza era così frequente che, intorno a questi personaggi, si generò un vero e proprio mercato: a centinaia erano i venditori ambulanti di queste uova odorose che venivano lanciate verso balconi occupati da amici, conoscenti e da fanciulle innamorate. Il mattaccino compare fin dalle più antiche cronache e la prima legge sulle maschere, datata 1268, è interamente dedicata a proibire il "gioco delle ova". Tanto era comune questo gioco, che il governo, dopo essere intervenuto a più riprese senza sortire alcun effetto positivo, ritenne opportuno proteggere il passaggio delle dame in Piazza stendendo lungo le Procuratie delle reti, che evitavano alle belle signore in passerella l'incomodo di imbrattare le vesti ricche e dispendiose. 

Gnaga Il carnevale offriva l'occasione anche di rivelare la propria natura reale, infatti molti erano i giovani continuamente segnalati agli Inquisitori di Stato dai vigili "occhi" della Serenissima per il loro comportamento effeminato, per una omosessualità per niente dissimulata. Oltre a questi, però, c'erano tanti buontemponi che trovavano nel travestimento da donna un divertimento incredibile e le gnaghe veneziane erano appunto un misto degli uni e degli altri con qualche tocco di volgarità in più. Alcuni vogliono che gnaga derivi da "gnau", il verso del gatto. Nella lingua veneziana esisteva un modo di dire: "aver una ose da gnaga", che il Boerio la speiga in codesti termini: "diremmo, s'è femmina, aver una voce di Strigolo o di gatto scorticato; e s'è uomo, aver una vociaccia o voce di cornacchia o una voce di chioccia o di donna". Le gnaghe si accompagnavano ad altri amici, vestiti da "tati" o "tate", termini dialettali indicanti i neonati, o i bambini molto piccoli, non ancora in grado di esprimersi e, giocando su goffe e dozzinali espressioni, giravano per la città importunando i passanti. 

Il Domino costituiva un' elegante variante alla veneziana bauta, tipico travestimento carnevalesco a cappa. Nella seconda metà del XVI secolo furono i francesi per primi ad attribuire questo nome al cappuccio usato dai monaci, divenuto, per capriccio della moda, un abito assai comune. Discorde con questa origine dell'abito è la spiegazione politico-religiosa che vede in quel particolare capo di abbigliamento un atto di irriverenza nei confronti della Chiesa cattolica da parte inglese, quando questa nazione decise di entrare in netto contrasto col papa. L'origine del termine si deve ad un'espressione latina di natura ecclesiastica: benedicamus Domino (benediciamo il Signore) che ritornò in Italia attraverso la mediazione dei francesi. 

Il Medico della Peste: questo curioso abbigliamento, prima ancora che maschera, era considerato dai medici un'indispensabile precauzione. L'origine del costume è francese, l'ideatore un medico del XVI secolo: Charles de Lorme. La peste a Venezia era una tragica consuetudine, che ciclicamente ritornava a mietere le sue vittime. Solo due erano i metodi allora conosciuti per scongiurarne i malefici effetti: l'edificazione di templi votivi (Redentore e Madonna della Salute) e l'organizzazione sanitaria, ancora assai fragile a causa delle scarse conoscenze mediche. Fin dal secolo XIV i trattati sulla peste raccomandavano abbigliamenti particolari ai medici che si esponevano al pericoloso contagio. Il medico veneziano Troilo Lancetta, testimone della tragica pestilenza del 1630, ricorda che alcuni medici indossavano un "abito peculiare": la tunica era di lino o di tela cerata, al fine di impedire che i miasmi infettanti si depositassero sull'abito del dispensatore di salvezza. La bacchetta serviva a sollevare le coltri senza entrare in diretto contatto con oggetti e corpi malsani. Ulteriori protezioni erano il cappello e gli occhiali e quel becco adunco, riempito di essenze medicamentose e disinfettanti, che trasformava l'operatore sanitario in un lugubre uccello, paragonabile agli antichi stregoni che fanno propria la bruttezza del male da allontanare. Non si tratta dunque di un abito carnevalesco, ma del simbolo terrificante di un morbo molto ricorrente in una città di traffici marittimi. Il carnevale recupera questo simbolo spaventoso di morte, per alleviare la coscienza di una così tragica realtà e finiva per avere la funzione di esorcizzare, con il riso, dolore e morte. 

Pescatore chioggiotto. Fu il celebre commediografo Carlo Goldoni che rese celebre la litigiosità degli abitanti della bella e ricca Chioggia. Testimone di numerosi episodi di vita quotidiana che traspose nella commedia "Le baruffe chiozzotte", la sua opera incontrò presto il successo pur riservandogli la dannazione eterna per le maledizioni dei chioggiotti messi alla berlina. Eppure il commediografo aveva seccamente ribadito che questa era solo la pura verità nella prefazione all'opera: «Queste baruffe sono comuni fra il popolo minuto, e abbondano a Chiozza più che altrove; poiché di sessantamila abitanti di quel Paese ve ne sono almeno cinquantamila di estrazione povera e bassa, tutti per lo più pescatori o gente di marina». Nel 1791, circa trent'anni dopo la prima rappresentazione della commedia, quando Goldoni risiedeva ormai da tempo in Francia, a Venezia alcuni chioggiotti formarono una loro compagnia e, mascherati da pescatori, approdarono coi loro colorati bragozzi presso il Ponte della Paglia e inscenarono per scherzo la baruffa che li aveva resi famosi in tutto il mondo. Una riabilitazione, dunque, dello "scomunicato" Goldoni? Forse era solo una riscoperta della propria natura sanguigna, ma anche, dopo il bollore improvviso, il ritorno alle dimensioni paciose e bonarie di tutti i giorni.

Bernardon, una delle maschere più contestate, era un vecchio pidocchioso che mostrava le piaghe impresse sul suo corpo a causa degli stravizi giovanili e della sifilide. Si presentava come un uomo coperto di cenci cascanti a pezzi che gli lasciavano scoperte parte delle braccia, delle gambe o della schiena, lasciando intravedere le finte piaghe e i bubboni. Il capo era avvolto da un drappo lordo di sangue, aveva una gamba di legno ed era retto in piedi da dei bastoni. Era solito camminare per la città intonando una canzonaccia ed entrare nei caffè per chiedere l’elemosina (che poi si scopriva che molti erano persone di condizioni distinte). Questa maschera fu proibita nel periodo della dominazione austriaca.

 

La parrucca. Il primo patrizio che a Venezia introdusse la moda francese della parrucca sembra sia stato il conte Scipione Vinciguerra Collalto nel 1668. La città lagunare fu letteralmente invasa da questa moda, tanto da preoccupare le autorità. Il 29 maggio 1668 il Consiglio dei Dieci si preparò a frenare gli entusiasmi con un decreto, che prendendo spunto dalla troppa rilassatezza dei costumi imponeva “che resti espressamente proibito a ciascun nobile, cittadino o suddito nostro, sia di qual grado o condizione si voglia nessuno eccettuato, l’uso di parrucche o capigliature posticce, cosicché tutti quelli della sopraccitata qualità, cha passato il termine di mese uno prossimo, ardiranno contravvenire al presente risoluto decreto, si intenderanno irremissibilmente sottoposti alla censura degli Inquisitori dello Stato”, ma la reazione non venne soltanto da parte della legge, infatti essendosi scatenata una vera e propria battaglia tra i conservatori e i radicali, gli innovatori ebbero ben presto la meglio. Il Governo a questo punto cercò almeno di trarre un vantaggio economico dalla situazione, imponendo una tassa di due ducati e mezzo a parrucca. Le cose seguirono il loro corso e le botteghe dei parrucchieri, anziché diminuire aumentarono, segno che i veneziani non temevano né leggi né decreto né tantomeno tasse. Si deve ricordare che fin dal 1435 i parrucchieri si erano separato dai barbieri, formando una propria scuola con la sede, che attualmente corrispondente al numero anagrafico 4361 in calle dietro S. Giovani Nuovo. È inutile dire che il vezzo maschile aveva ampiamente contagiato anche la moda femminile. I tuppè ormai erano diventati una consuetudine per le donne e le “conzateste” una professione particolarmente lucrosa, e sulla testa della donna si affacciavano vere e proprie piramidi, capolavori di architettura pilifera. Le fogge delle parrucche variavano e L’Enciclopedia del pettinarsi, apparsa a Venezia nel 1769 ne elencava ben 45 diverse. Le parrucche venivano fatte con capelli veri, tagliati a persone vive, anche se i maldicenti insinuavano che si facesse scempio delle povere teste dei morti, ma i problemi sanitari per i parrucconi non erano solo di questa specie. Infatti la polvere di Cipro, usata abitualmente ed in abbondanza sulle parrucche, creava non pochi inconvenienti igienici, la cipria guastava la pelle e contribuiva allo sviluppo dei pidocchi.

Il trucco. Senza maschera ne travestimento i vili si presentavano con la voro identità. Belli o brutti, giovani o vecchi comunque scoperti ed esposti in ogni circostanza pubblica o privata. Sovviene allora “il trucco” antichissimo costuma di uomini e donne usato generalmente come abbellimento. Ricette ed usanze d’impegno si rinvengono ovunque. Traslando, quindi il trucco rientra nel grande paniere della mascheratura o travestimento, poiché in fondo quello di appartenere “diversi” da quello che si è è un modo di ingannare se stessi e gli altri, ed offrire un’immagine fittizia che momentaneamente coinvolge l’assenza di responsabilità e di comunicazione. L’excursus della trattazione ci porterebbe lontano: abbiamo preso dunque tre esemplificazioni: la cortigiana, la dama del 1700 e il cicisbeo. Le quali esemplificazioni, in tempi e in luoghi diversi, sono particolari di categorie e condizioni umane e civili atte a dar luogo ad un quadro abbastanza chiarificatore.

 

Bibliografia: Le Maschere Veneziane, Reato, Danilo; Venezia: Arsenale Editrice, 1988

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